Uso illegittimo della cosa comune e sentenza di accertamento di tale illegittimità. Il vizio di ultrapetizione.

22.04.2010 10:04

(13/04/2010)di Alessandro Gallucci, avvocato del foro di Lecce

Ogni condomino ha diritto ad usare le parti comuni dello stabile nel modo che ritiene più utile alle proprie esigenze.
 
Tale diritto è sancito chiaramente dell’art. 1102, primo comma, c.c. che recita:
 
Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il migliore godimento della cosa”.
 
I limiti, quindi, vanno rintracciati nel divieto di alterarne la destinazione d’uso ed in quello di non impedire agli altri condomini di poter, a loro volta, utilizzare il bene condominiale nel modo che ritengono più opportuno.
 
L’evidente genericità della norma porta a concludere che la valutazione dell’illiceità dell’utilizzo debba essere fatta caso per caso, in relazione alla situazione fattuale ed ai diritti riconosciuti ai singoli dagli atti d’acquisto delle unità immobiliari.
 
Se un condomino ritiene che un suo vicino si stia servendo della cosa comune in modo illegittimo potrà agire in giudizio al fine di ottenere dal giudice competente (ossia quello del luogo in cui è ubicato l’immobile) la dichiarazione di tale illegittimità dell’uso e la conseguente cessazione.
 
Con una recente sentenza, la n. 237 dell’11 gennaio 2010, la Corte di Cassazione si occupa di tale materia in relazione ai provvedimenti che il giudice può prendere con riferimento alla domanda della parte che ha iniziato il giudizio (il così detto attore) ed ai vizi che la sua decisione può assumere.
 
Cerchiamo di specificare meglio quanto appena detto.
 
Ai sensi dell’art. 112 del codice di procedura civile:
 
Il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa; e non può pronunciare d'ufficio su eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti”.
 
Si tratta del c.d. principio tra chiesto il pronunciato.
 
In poche parole il giudice deve dare giustizia su quanto richiesto. Se dirà meno di quello che gli viene richiesto, si avrà il c.d. vizio di omessa pronuncia.
 
Se, invece, il magistrato andrà oltre quello che le parti gli hanno domandato, il vizio sarà l’opposto ossia quello dell’ultrapetizione.
 
La Corte di Cassazione, in relazione alla valutazione del rispetto di tale principio, ha affermato che “nell'esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda, il giudice del merito non è condizionato dalla formula adottata dalla parte, dovendo egli tenere conto, piuttosto, del contenuto sostanziale della pretesa come desumibile dalla situazione dedotta in causa e dalle eventuali precisazioni formulate nel corso del giudizio, nonché del provvedimento richiesto in concreto, con i soli limiti di rispettare il principio della corrispondenza della pronuncia alla richiesta e di non sostituire d'ufficio una diversa azione a quella formalmente proposta” (ex multis Cass. SS.UU. 21 febbraio 2000 n. 27).
 
Ciò che bisognerà valutare, dunque, al di là delle classificazioni giuridiche è che il magistrato giudicante abbia reso giustizia effettivamente su quanto le parti hanno richiesto.
 
Nel caso sotteso alla sentenza n. 237/10, un condominio chiedeva fosse accertato uno specifico uso illegittimo di una parte comune, perpetrato tramite l’apertura di alcuni varchi su una zona di proprietà condominiale.
 
Il giudice di merito, in particolare la Corte d’appello, aveva dichiarato l’illegittimità dell’uso della cosa comune ex art. 1102 c.c. ma non con riferimento a quanto chiesto dal condominio, bensì individuando un'altra diversa utilizzazione illegittima e ordinandone la cessazione.
 
A seguito del ricorso dei soccombenti la Cassazione ha annullato quella decisione.
 
A parere dei giudici d’illegittimità, infatti, il giudice di secondo grado era andato oltre le richieste delle parti e la sua decisione, pertanto, era affetta da ultrapetizione è doveva essere considerata invalida.
 
In definitiva, secondo il Supremo Collegio, l’azione ai sensi dell’art. 1102 c.c. non legittima il giudice di merito a verificare, ed eventualmente impedire, tutti gli usi illegittimi del bene comune ma lo vincola ad accertare solamente quell’uso vietato lamentato dalla parte promotrice del giudizio.
 

Avv. Alessandro Gallucci

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